Pubblichiamo con grande emozione un racconto dell’ex allievo Edi Fabris, apprezzato giornalista, che ha ottenuto un riconoscimento al premio Voci Verdi a Bassano del Grappa e che Edi riceverà sabato 28 maggio p.v. a Villa Cà Erizzo,
Il racconto è dedicato al compagno di banco e amico di una vita recentemente scomparso.
L’ULTIMO SORRISO
Aveva pianto a lungo nel corridoio dell’ospedale, in un abbraccio consolatorio con Giovanna, la sorella dell’amico, poi si era ricomposto e facendosi forza era entrato nella stanza in fondo alla quale, accanto ad un’ampia, luminosa finestra, Franco stava supino, assopito, reso inerme dalla malattia. Agnese, la moglie, seduta sul bordo del letto tenendogli una mano, vide entrare Armando e disse sorridendo: “Guarda, Franco, chi è venuto a trovarti, dall’America!”. Lui aprì gli occhi e abbozzando un sorriso riuscì a pronunciare: “Ehi, Armando…”. Agnese fece scivolare la mano in quella dell’amico e lui la sentì calda e la tenne poi stretta a lungo nella sua. “Dai, su, esci da quel letto e andiamo a bere un bicchiere!”, Armando provò a sdrammatizzare, esorcizzando così nel contempo l’acuto, profondo dolore che lo stava attanagliando. Franco accennò ad un nuovo sorriso, senza più parlare. “Chissà quante ne farete ancora insieme!”, Agnese s’inserì, ma Franco aveva richiuso gli occhi, mantenendo sulle labbra la piega ironica che gli era caratteristica. Armando sentì la gola bloccata dal dolore e dalla voglia di piangere che gl’impediva di parlare e delicatamente si liberò della mano dell’amico, facendola scivolare sul lenzuolo. “Adesso vado…”, riuscì solo a dire e Agnese annuì con un cenno del capo, sorridendogli amaramente. Fuori dalla stanza, percorse piangendo sommessamente gli infiniti, semideserti corridoi dell’ospedale, assalito dai ricordi di anni in cui la sua vita e quella dell’amico avevano proceduto in parallelo, intersecandosi spesso, sin da quel primo giorno di scuola, in seconda superiore all’istituto tecnico commerciale, in cui si erano ritrovati in banco insieme. Di studiare non avevano mai avuto entrambi molta voglia, affinità d’intenti che era stata loro propria pure in una quotidianità contrassegnata prevalentemente da un tempo che riuscivano a rendere libero dedicandosi al pingpong e al flipper nelle sale giochi, alla compagnia degli amici e delle ragazze e alla pratica sportiva, Franco in una squadra di pallacanestro e Armando come calciatore. E messisi alla fine bene o male in tasca il pezzo di carta ambito più dai genitori che da loro stessi, avevano imboccato le strade canoniche della loro generazione, il servizio militare, il posto fisso, per entrambi in banca, il matrimonio, i figli, per due dei quali si erano fatti reciprocamente padrini di battesimo. Un’amicizia forte, complice e consolidatasi nel tempo, la loro, più di un rapporto d’amore, tanto da durare una vita e fino alla triste soglia del definitivo distacco. E ripensò all’ultimo bel ricordo di Franco, solo un anno prima, quando l’aveva visto entrare in chiesa una mattina di giugno al braccio della figlia più giovane, Marcella, in abito da sposa, sorridente, tra due ali di parenti e amici. Poi avevano fatto festa fino a tarda sera in un rustico di campagna divenuto ristorante, mangiando, bevendo, ballando e scherzando, spensierati e allegri. “E’ in forma”, Armando aveva commentato a tavola con sua moglie, rasserenato dall’immagine dell’amico, che negli ultimi tempi sapeva sofferente di qualcosa di ancora oscuro.Ma solo un mese più tardi, proprio il giorno del compleanno di Armando e poco dopo la loro immancabile telefonata augurale, Franco si era sentito male in casa, era stato trasportato d’urgenza in ospedale e successivamente operato al capo. Mesi di sofferenza e di cure dai quali comunque uscì apparentemente vincitore, tanto che Armando euforicamente gli promise: “Quando ti sentirai di nuovo in piena forma organizzeremo una grande festa, con anche un paio di ragazze colombiane a ballare sul tavolo!”. “Ottima idea – Franco ci aveva sorriso su – ma non so se mia moglie sarà d’accordo”. Erano poi usciti insieme, dopo tanto tempo, un pomeriggio di tarda primavera, passeggiando come ai vecchi tempi nel centro di Udine e inerpicandosi, su richiesta di Franco, sul colle del castello, bevendo un aperitivo nel bar panoramico e parlando volutamente più di sciocchezze che di cose serie. Avevano ormai entrambi dei nipoti ma dentro si sentivano ancora dei quarantenni, voltandosi a guardare le ragazze e rispolverando i commenti e le battute di spirito tipiche dei loro anni giovanili. “Ormai ce l’ha fatta”, Armando gioì nel proprio intimo guardando l’amico gesticolare con vivacità mentre esponeva le proprie teorie sulla politica e sull’economia, argomenti che seguiva con interesse sui giornali e nei programmi televisivi.Erano poi ridiscesi di buon passo e prima di lasciarsi per rientrare a casa si erano ripromessi di ritrovarsi di lì a non molto per una passeggiata in montagna insieme ad altri amici. Durante l’estate Armando andò con sua moglie a far visita alla figlia negli Stati Uniti e anche lì Franco lo raggiunse un giorno collegandosi al computer e insieme parlarono a lungo di fatti di vita e di immancabili facezie e solo marginalmente di salute. E si erano fatti quattro risate ritornando ai molti fine anno trascorsi insieme agli altri amici nella casa di Franco che dava su un lato sull’aperta campagna e dopo gli auguri di mezzanotte gli uomini si divertivano come ragazzini, in giardino, a lanciarsi i petardi tra i piedi e un razzetto lanciato da Carlo si era infilato una volta, come telecomandato, nel camino di una casa di fronte. “E’ tornato quello di sempre”, si consolò Armando dopo che si erano salutati, cominciando a pensare seriamente all’organizzazione della grande festa con anche le ragazze colombiane a ballare sui tavoli. “Semprechè ci sia il placet di Agnese”, aveva ridacchiato fra sé. Si sentì però mancare le forze, piangendo come un bambino, quando qualche giorno più tardi la moglie di Franco gli comunicò che la situazione era precipitata, che il marito era stato ricoverato d’urgenza ma che aveva comunque trovato la serenità di chiamare attorno a sé i tre figli, consapevole probabilmente di essere giunto al capolinea. Un successivo, scarno messaggio telefonico di Giovanna, “finito”, fece sprofondare Armando in una cupa disperazione, ma dentro di sè trovò il conforto di quell’ultimo sorriso che Franco, con la forza della loro profonda amicizia, aveva saputo regalargli. Avvertì che se n’era andata una parte di sé, sentendosi più debole e vulnerabile, privo di un punto di riferimento vitale. E l’ultimo atto, nella piccola, affollata chiesa di periferia, lo visse senza più lacrime, quasi estraniato da una situazione che non voleva credere gli appartenesse. Si turbò alle note di “Imagine”, la canzone preferita da Franco, che Raimondo suonò discretamente alla pianola quando la porta principale della chiesa si aprì, ma dietro al feretro credette di vedere anche l’amico dei loro anni giovanili, quasi che il fatto non lo riguardasse, con la zazzeretta castana “alla Beatles”, i baffi sul viso allungato e il suo passo lungo e largo. E durante la celebrazione Armando attese fino alla fine che Franco lo raggiungesse al banco, sussurrandogli in un orecchio: “Vecio, un settembre così non lo si vedeva da tempo, domani si va in montagna”.