Pubblichiamo con piacere ed orgoglio il racconto con il quale il giornalista Edi Fabris, ex allievo, ha vinto il premio Cormonslibri.
RITORNO DOLOROSO
Tornare al suo paese gli faceva male. L’aveva lasciato piangendo, da bambino, quando suo padre, commesso in un negozio di ferramenta nel centro di Udine, aveva deciso di trasferirsi in città, stanco di un quotidiano pendolare in treno che giorno dopo giorno lo stava sfiancando. Ma al nuovo ambiente il piccolo Ernesto si era ben presto abituato, tornando a Cormons la domenica per riabbracciare la nonna vedova e una prozia nubile che viveva con lei, ma senza più provare l’acuto, intimo dolore che gli aveva morso il petto quando se n’ era andato. Le sue radici erano comunque là, solide e inalterabili, e del suo luogonatìo Ernesto aveva sempre conservato un ricordo dolce e struggente allo stesso tempo, una memoria divenuta poi dolorosa quando i suoi cari e quanti l’avevano corrisposto se n’erano andati l’uno dopo l’altro. A Cormons ci ritornava ora solo per recarsi al camposanto, a soffermarsi a pregare e a scambiare idealmente un pensiero con chi in vita l’aveva amato e adesso lo guardava, immoto, da una foto su una grigia lapide marmorea. Sostandovi davanti, Ernesto intravedeva tra i cipressi l’ondulata, verde sagoma del monte Quarìn, “la mont”, come la chiamavano in paese, con la sua chiesetta e i resti dell’antico castello a dominare da un crinale la piana sottostante fino al mare. Quante volte, a Pasquetta, pensava, vi era salito con i genitori e l’allegra compagnia alla quale si univano per stendervi la tovaglia e consumare la merenda fra i ciliegi in fiore, unendosi poi al canto spesso sgangherato e alle risate della comitiva resa più festosa dal troppo vino bevuto. Ma lui contemplativo lo era stato sin da bambino e mentre gli adulti si dedicavano al gioco delle carte e alle barzellette scollacciate, preferiva avventurarsi tra i vigneti e lasciar vagare lo sguardo tra le case del paese sottostante, soffermandosi più a lungo a osservare la verde cupola e l’imponente campanile del Duomo di S.Adalberto, sotto al quale, in una vecchia piazzetta, c’era la casa della nonna paterna. E più avanti le cipolle dei due campanili della chiesa di Rosa Mistica, in “vile”, la piazza di maggior movimento di Cormons, con il mondano caffè Europa e i negozi che la circondavano. Attiguo a quella chiesa c’era l’asilo infantile del quale per pochissimo tempo era stato ospite, e aveva sorriso tra sé ripensando al giorno in cui, stanco della disciplina imposta dalle monache e disgustato dalla minestra d’orzo che quasi quotidianamente era costretto a mangiare, l’aveva gettata da una finestra ed era fuggito, non visto, da una porta secondaria, rifugiandosi dalla nonna. Già, sin da bambino si era scoperto insofferente alle prolungate permanenze negli spazi chiusi e al dover obbedire agli ordini ed ora, volgendosi all’indietro, si meravigliava di aver resistito per oltre trent’anni da mattina a sera in un ufficio alle prese con un lavoro anonimo buono solo per lo stipendio. Il senso di responsabilità verso la famiglia che si era costruito, questo l’aveva distolto dall’intento di andarsene e vivere altrove con poco, ma padrone della sua vita. E ritornando al tempo dell’infanzia a Cormons ricordava con particolare piacere le sue camminate primaverili avventurose e solitarie tra i campi retrostanti la sua casa oltre la ferrovia e fino alla riva del fiume Judrio e quelle tra le viuzze del borgo antico che avvolgevano il Duomo e la casa della nonna. Di quella piazzetta dal fondo sterrato dove aveva trascorso tante ore giocando con i gatti che vi approdavano, scomparendo poi rapidamente, aveva sempre conservato nitidamente le voci degli abitanti che si parlavano da una casa all’altra, scambiando pettegolezzi e sonore risate. Ricordava in particolare MarìeCossòne, la signora della porta accanto, che durante la guerra, per sopravvivere, affittava ai militari americani una stanza per trascorrervi un’ora di piacere con le “segnorine”. Era vedova, sioreMarìe, e aveva una figlia adolescente, Teresa, dolce e timida, che piaceva tanto a un cugino di Ernesto ma si era invece fidanzata giovanissima con un altro ragazzo del paese. E di fronte, in un’abitazione altrettanto umile, viveva SiòreTunìne, lunga e secca e con un largo sorriso di denti d’argento, detta “la Simpson” perché compagna non certificata, come l’americana del Re d’Inghilterra, di un certo Guerrino, un omino del luogo con il berretto a coppola perennemente calcato sul capo.Nella casa di fronte c’era poi la famiglia di un falegname che aveva una figlia di poco più grande di lui, la Nadia, una brunetta con un visetto sbarazzino che andava a scuola di pianoforte e ogni pomeriggio suonava fino alla nausea Il piccolo montanaro, senza che nessuno dalle case vicine avesse nulla da ridire. E in fondo alla piazzetta, prima di una breve curva che portava alla scalinata del Duomo, l’osteria della Giorgetta, un posto dall’arredo squallido e dal persistente lezzo di vino e di fumo, costituiva l’approdo di quanti volevano costruirvi la loro sbronza quotidiana, dimenticando le proprie malinconie davanti ai quarti di bianco e di nero. La nonna e la prozia no, non vociavano, erano figlie di una diversa estrazione sociale che la guerra aveva impoverito, e ricevevano discretamente le loro anziane amiche per un tè o un caffè pomeridiano senza azionare la grancassa come facevano le altre donne della piazzetta in presenza di ogni seppur insignificante evento. Ernesto, bambino, accoccolato sul primo gradino della scala in pietra che dall’atrio portava al piano superiore e attigua al salottino dove le signore si riunivano, amava osservarne a debita distanza gli atteggiamenti, curioso e divertito, accontentando la prozia Olga quando gli chiedeva di andare ad acquistarle le sigarette dal Rullo. Lui, allora, con i soldi ben stretti in una mano, scendeva correndo verso via Matteotti, passando davanti alla porta semiaperta di Sante Padoàne, uno sciatto donnone di mezza età perennemente affacciato all’uscio per carpire i movimenti del borgo e farne un argomento di conversazione con la prima persona disposta ad ascoltarla. E poi ancora giù, rallentando la propria corsa davanti alla vecchia Pretura, dove gli avevano raccontato che negli anni Trenta un funzionario meridionale oppresso dai debiti di gioco si era tolto la vita con la pistola, accomunando nella propria triste sorte anche la giovane moglie e la figlioletta di pochi anni. L’aveva impressionato, quella storia, e passando davanti all’edificio non mancava mai di guardare in fondo all’androna il giardino interno, immaginandovi quelle povere persone in vita a godervi la frescura estiva e la bambina a rincorrere i gatti tra le aiole. Per andare dal Rullo avrebbe potuto accorciare il percorso tagliando attraverso le viuzze del borgo vecchio, ma preferiva invece scendere fino in “vile”, passando davanti alla farmacia del dottor Donda, morto in battaglia nella guerra civile spagnola, al caffè di Marino, dove suo padre la domenica mattina andava a giocare a briscola con gli amici, alla drogheria del signor Sandro e al negozio di fotografia del signor Waldi, amici dei genitori, per poi risalire verso la piazza del teatro. Era un curioso della vita, Ernesto, sensibile ai racconti che soprattutto i nonni gli avevano fatto di epoche che gli parevano tanto lontane da credersi mai esistite. E imboccando una stretta via in leggera salita dopo essersi lasciato alle spalle la piazza del teatro, vi si soffermava a metà davanti all’insegna di una vecchia trattoria, Ai due fratelli, dove la nonna, rimasta vedova a metà degli anni Trenta con tre figli da mantenere, aveva dovuto guadagnarsi da vivere dopo la morte del marito, già funzionario benestante di un Ente pubblico ridotto poi a malpartito dai suoi ideali avversi al potere costituito. La prozia, che lui chiamava zia Olga, quando ritornava con il pacchetto verde delle Nazionali esportazione senza filtro, non aveva mai nulla da ridire sui tempi lunghi della commissione, mettendogli anzi regolarmente in una mano qualche lira di mancia.E le signore non mancavano mai di rivolgergli qualche discreto complimento sul suo essere così servizievole, facendogli pure le rituali domande sulla scuola e sui suoi passatempi preferiti.A Cormons Ernesto ci era ritornato regolarmente anche da più grande, soprattutto la domenica, quando accompagnava suo padre al campo sportivo a seguire le partite della squadra di calcio alla quale era rimasto affezionato. Ed era un’occasione, per lui, mentre suo padre beveva un bicchiere di vino al chiosco con i vecchi amici, di guardarsi attorno e rivedere con un pizzico di nostalgia l’attiguo edificio della scuola elementare che aveva frequentato fino alla seconda classe, prima di trasferirsi in città. E ritornava con il pensiero alla maestra Marcella, della quale conservava ancora nitido il tono della voce, ai volti dei compagni, con il loro grembiule nero e il fiocco rosso a pallini bianchi attaccato al colletto candido, e le corse tra i castagni del parco nei minuti della ricreazione.E rivedeva pure le rosse maglie della squadra, lavate dalla bidella della scuola, appese ad asciugare alla rete di recinzione, sognando di poterle indossare anche lui, un domani.Quindici anni prima, non moltissimi, ma a quell’età un’eternità. Lo scorrere del tempo aveva però finito con il diluire i suoi ritorni al paese. Era diventato adulto, aveva fatto il militare, trovato un lavoro e messo su famiglia, non dimenticando di andare a far visita periodicamente alla nonna e alla prozia ma perdendo le abitudini di una volta e i contatti con i piccoli amici d’infanzia con i quali aveva giocato a palline o a cow boys e indiani nel cortile di casa, in via Bancaria. E quando la nonna era morta e la zia Olga, ormai novantenne, era stata affidata ad un istituto per anziani di Gorizia, concludendovi là i suoi giorni, e la casa della piazzetta sotto al Duomo era stata venduta, al paese non ci era più ritornato per lungo tempo. Un dolore, il riapprodarvi, acuito da quello della morte di suo padre, cui aveva voluto dare sepoltura insieme alla madre e alla zia, che negli anni di povertà aveva sostenuto la famiglia con il suo lavoro di commessa in una farmacia di Gorizia.Ma quando, percorrendo talvolta in automobile la strada statale verso Trieste dalla quale Cormons appare di lato in lontananza come l’immagine di una cartolina, non mancava mai di soffermarsi il più a lungo possibile con lo sguardo sulla oblunga, verde collina del Quarìn e sulla chiesetta che ne contraddistingue la sagoma e, più in basso, sull’alto campanile del Duomo sotto al quale, nelle case ora ristrutturate e dalle facciate riverniciate della piazzetta, non vivevano più le persone che lui aveva amato. Gli restava il ricordo, vivo anche se reso doloroso dall’impietoso scorrere del tempo, ma se ne accontentava.